Omelia nella S.Messa della Vigilia della Pentecoste

San Leo (RN), Cattedrale, 7 giugno 2025

(da registrazione)

Gv 7,37-39

Come Maria e gli Apostoli, dopo aver incontrato più volte il Risorto, ci ritroviamo stasera in attesa del primo dei doni che Cristo ha promesso ai suoi discepoli: il dono dello Spirito Santo, che ci accompagnerà, giorno dopo giorno, a maturare sempre di più in noi il discepolato, nella consapevolezza che, prima di ogni altra cosa, siamo chiamati a crescere nel dono della fede, che dobbiamo accogliere nella prospettiva della speranza, senza la quale mancherebbe “la cornice”. Senza la speranza, infatti, la fede diventerebbe un dono sciupato, un dono affidato, tante volte, a ritualismi, un dono che non mette in movimento il nuovo popolo dell’Alleanza che siamo noi, un dono che nutriamo di dottrina, ma non esprimiamo con la carità, proprio perché ci manca la prospettiva della visione della speranza, che ci fa vivere in attesa del ritorno del Risorto. E allora questo luogo diventa il Cenacolo a cui siamo convocati dallo Spirito Santo, che fa di tutti noi coloro che attendono, nell’esperienza della celebrazione dell’Eucaristia, l’incontro con Gesù, ma anche il suo ritorno.

In questa prospettiva mi piace vivere, questa sera, la Veglia di Pentecoste dove tutto è iniziato per la nostra Chiesa particolare, in questa Cattedrale, la madre delle nostre chiese. Di qui san Leone ha dato origine alla sua Chiesa particolare, la nostra Chiesa di San Marino-Montefeltro. Di qui nasce la comunità, che noi ereditiamo nelle tradizioni, nei monumenti, in tutto quello che ci circonda e che siamo chiamati non soltanto a custodire, ma a tramandare. Ecco perché, quando diciamo “credo nella Chiesa”, la Chiesa è per noi, innanzitutto, l’immagine visibile di questa Chiesa particolare che prende forma nella storia, nell’oggi, con i volti e le storie di tutti i cristiani che insieme si adoperano per far crescere nella speranza la comunità dei credenti. La Chiesa esiste per continuare l’opera di Cristo, che è far crescere il suo popolo.

Questa sera, qui, vogliamo rinnovarci nel rispondere ad una chiamata, una chiamata missionaria, una chiamata che coinvolge tutti quanti noi che abbiamo delle responsabilità nei confronti dei nostri fratelli e delle nostre sorelle perché sia annunciato il Vangelo della speranza, il Vangelo della gioia, il Vangelo della salvezza. Con Paolo dobbiamo dire «guai a me se non annuncio più il Vangelo!» (cf. 1Cor 9,16). Che cosa stiamo annunciando quando nelle nostre comunità si vive la deresponsabilizzazione, quando nelle nostre comunità si delega agli altri, quando nelle nostre comunità puntiamo il dito e cerchiamo sempre dei colpevoli se qualcosa non va bene, quando ci sediamo gli uni a fianco agli altri senza conoscerci, quando viviamo da estranei la comunità, quando mettiamo il peso della comunità sulle spalle del parroco, quando tutto non va ed è sempre colpa di qualcun altro? Quale Vangelo stiamo annunciando? Noi cristiani sentiamo ancora vivo il bisogno, ma anche la bellezza, di non dover convertire gli altri, ma prima di tutto noi stessi a Cristo per essere testimoni del Vangelo e per ripetere l’esperienza delle prime comunità, che erano attraenti perché vivevano con «un cuor solo ed un’anima sola» (At 4,32).

Com’è possibile realizzare tutto questo? Ce lo ha ricordato da subito papa Leone: «Scomparendo». Noi dobbiamo scomparire nella luce del Vangelo. Dobbiamo nutrirci a tal punto della speranza e della bellezza di essere discepoli di Cristo che, con san Paolo, possono dire «non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20), in cui l’io, così come succede nel Battesimo, muore a sé e rinasce alla speranza della risurrezione. Come è difficile morire a sé!

Siamo troppo avvelenati, inquinati, forse imbevuti di una cultura contemporanea che mette sempre di più al centro la rappresentazione di sé, che è falsificazione della propria persona, perché abbiamo bisogno che gli altri vedano noi, abbiamo bisogno che tutto vada su di noi, perdendo di vista le motivazioni della nostra fede: perché sono cristiano? Come voglio vivere la mia vita? È proprio necessario che tutti sappiano quello che io faccio? Non c’è più spazio per vivere un’intimità, un ritiro nel Vangelo! No, non sappiamo più vivere da soli. E se viviamo con gli altri, siamo infastiditi dalla loro presenza, perché togliamo spazio a noi stessi, perché ci fanno ombra, perché non sappiamo stare bene con noi stessi e con Dio. Questa sera, in questo Cenacolo, in questa nostra chiesa madre, vogliamo attendere il rinnovamento che lo Spirito può portare a noi qui presenti.

Alcuni nostri fratelli e sorelle delle aggregazioni sono a Roma perché stanno vivendo il Giubileo dei movimenti con il Papa; hanno mandato qualche foto, sono in comunione con noi. Ma ci sono tanti altri che non sappiamo dove sono perché manca il senso della Chiesa, manca il senso dell’appartenenza, manca il senso di responsabilità per essere direttori di un Ufficio piuttosto che responsabili di un’associazione perché, quando si è insieme agli altri si scompare, non ci si sente protagonisti. Possiamo ancora affascinare? Una Chiesa che sostiene l’egocentrismo e la mania di dover essere a tutti i costi al centro dell’attenzione non porta a Cristo, porta allo smarrimento di Babele, dove quegli uomini e quelle donne, non guardando più Dio dal quale stavano fuggendo ─ «emigravano da oriente» (Gn 11,1) ─, dicevano: «Costruiamoci una città, costruiamoci un nome, diamoci un’identità» (cf. Gn 11,4). Non siamo donne e uomini che costruiscono la Chiesa, siamo donne e uomini che rispondono ad una chiamata che viene da Dio, che ci dona, nel Battesimo, la vita eterna, che è la santità, che ci sforziamo di custodire con la preghiera, con la meditazione, con i sacramenti. Alcuni pensano proprio che dobbiamo diventare santi: spiritualità incomprese, spiritualità devianti. Noi non dobbiamo diventare santi, ma dobbiamo custodire e proteggere il dono della santità che Dio ci ha fatto nel Battesimo. Altrimenti poniamo l’accento ancora una volta sul nostro egoismo ed egocentrismo. È Dio il Santo e si rimane santi camminando davanti a Lui, non solo nel senso di seguire Gesù, ma anche nella prospettiva di avere Lui come fine. E allora, come dissi il Giovedì Santo ai miei carissimi sacerdoti e diaconi a cui rinnovo la gratitudine per la loro disponibilità, e cioè che avrei aspettato fino a Pentecoste per iniziare finalmente il cammino, dopo un anno di ascolto e di conoscenza in cui ho attraversato villaggi e incontrato persone, è giunto il momento di avanzare nel mar Rosso. Tempo di cambiamenti, sì: in tante parrocchie cambieranno i parroci. Nei prossimi mesi lo comunicheremo. Tempo di cambiamento nella Diocesi, sì: molti direttori, stanchi e affaticati, che da decenni portano avanti il lavoro pastorale, devono cambiare. Ma non perché sono inutili, ma perché, se non abbiamo fatto crescere qualcuno, non abbiamo seminato, abbiamo coltivato soltanto noi stessi. Tempo di cambiamenti, sì, anche nel modo di concepire le nostre comunità. Diremmo in filosofia, usando un termine emblematico, «bisogna cambiare il paradigma», che significa strutturare le comunità perché mancano i preti e quindi le adeguiamo a questa nuova circostanza… Non si cambia facendo i conti di quanti preti abbiamo, dobbiamo cambiare perché sono la storia e l’oggi che chiedono alle nostre comunità di essere comunità di fede che attendono il dono e l’effusione dello Spirito. Noi sacerdoti siamo a servizio di questa crescita, amministriamo i sacramenti perché tutti possano custodire il dono della santità. Tuttavia, c’è bisogno di un’interruzione, di lasciare l’Egitto. C’è bisogno di lasciarsi alle spalle il passato, se non nella memoria storica della tradizione, per rinnovarsi oggi, nelle sfide che la Chiesa ci pone, che la storia ci pone, che le esigenze culturali pongono al nostro discernimento. Siamo la Chiesa e dobbiamo recuperare il senso della Chiesa e la presenza del Risorto che si manifesta nella comunione. Parole forti, sì, perché lo Spirito è forte. Se non scuote, non l’abbiamo incontrato. Se non ci scuote, continueremo a rimanere seduti sui nostri “ma”, “forse”, “perché”. È tempo di avanzare nelle promesse di Cristo.

Questa Chiesa deve mettere al centro dell’attenzione la liturgia domenicale, l’Eucaristia. Dobbiamo riappropriarci della bellezza delle liturgie, che non devono essere né frettolose, ne rallentate, ma devono essere esperienza di Chiesa che celebra il giorno del Signore.

E dall’Eucaristia dobbiamo rinnovare innanzitutto la catechesi, che è fallimentare. È inutile continuare a fare la preparazione alla Cresima e alla Comunione se poi quel giorno dobbiamo dire: «Cari ragazzi, chissà se ci rivedremo…». Avremmo già fallito! Ai genitori dico: «Quando i vostri figli rispondono “sì” alla domanda: “Credete nella Chiesa?”», guardando voi, che siete la Chiesa, potranno credere? Siamo una Chiesa in cui credere? Siamo cristiani a cui affidarci?

Il cristianesimo è una cosa seria, che non dobbiamo chiedere agli altri, ma esigere da noi. Se mi sono dilungato questa sera è perché la Veglia di Pentecoste possa, da questa Cattedrale, suscitare nelle nostre comunità piccole, che sono le parrocchie, i movimenti, le associazioni, i gruppi, la forza del dono dello Spirito che sconvolge. Vorrei che, ritornando alle comunità, riportaste lo sconvolgimento del Vangelo che può rinnovare solamente se ci abbandoniamo alla sua potenza.

Ai parroci dico “grazie” per aver dato la vostra disponibilità al cambiamento. Nel prossimo mese vi sarà comunicato dove, come e perché. Ringrazio ufficialmente tutti i direttori degli Uffici Pastorali per il loro servizio; la maggior parte di loro sarà rinnovata. Si riconfigurerà anche il servizio di Curia.

Chiedo a tutti i fedeli di amare la nostra Chiesa: non siamo né di Pennabilli, né di San Leo, né di San Marino, né di Pietracuta, ecc. Siamo Chiesa locale e, come Chiesa locale, quando ci sono le celebrazioni, non per la mia persona di Vescovo, ma per ciò che il Vescovo rappresenta, tutti dobbiamo essere presenti. E se non siamo là, almeno per rappresentanza, vuol dire che di questa Chiesa non ci interessa nulla.

Lo diciamo per chi, pur potendo essere qui questa sera, ha preferito starsene nel suo. E questo è il grande dramma di una Chiesa che non vive la comunione, ma vive il “secondo me”.

Via Felice Cavallotti 7, 47865 San Leo Le Celle, Emilia-Romagna Italia