Stamattina ho celebrato il Rito della Professione solenne di una giovane monaca di clausura a Sant’Agata Feltria, nel monastero di Santa Maria Maddalena, uno dei tanti monasteri della nostra Diocesi che osa l’inedito della pace che passa attraverso l’incontro, ma anche la traduzione di un progetto. Le Sorelle Povere di Santa Chiara a Sant’Agata Feltria, insieme ad un monastero ortodosso in Romania, vivono il dialogo interreligioso, che passa attraverso non il riconoscimento del potere o del primato, ma attraverso l’azione di donne consacrate, che non hanno nulla da ambire, se non condividere la loro esperienza di consacrazione. È un monastero particolare, dunque, sia per il dialogo interreligioso, sia per la forza di un esperimento che forse è unico al mondo.
La pace. In questi giorni assistiamo a tante manifestazioni di pace, proclamazioni di pace, che devono diventare sempre di più uno stile di vita, perché la pace – come ci ha ricordato Papa Leone – si costruisce nel quotidiano, praticando relazioni di pace che riconciliano custodendo il perdono, innanzitutto nella nostra esistenza. Il primo passo per prospettare un dialogo di pace è riconciliarsi con sé stessi. Se non viviamo questo elemento fondamentale di riconciliazione, non recupereremo lo stile e l’impegno di armonia con tutto quello che ci circonda, per poi affermare i principi di una cultura della pace, ma anche di un orizzonte di relazioni di pace.
Il primo principio della cultura della pace è il primato della dignità della persona. Se oltrepassiamo la dignità che ogni essere umano custodisce nel fatto stesso di essere una creatura, è là che inizia la violenza, ovvero il sopruso che mettiamo in atto quando riduciamo gli altri ad una merce, o ancora di più ad una cifra, perché le guerre, soprattutto quelle a cui stiamo assistendo oggi, sono il frutto di calcoli e di cifre che coinvolgono gli esseri umani, privati della loro dignità e della loro libertà. Le guerre contemporanee, tra l’altro, sfuggono a tutti, mentre i media ci rivolgono e ci ribadiscono immagini, scene strazianti e dolorose: è in quel modo che fanno guerra alle nostre coscienze, perché una forte pervasione di immagini espropriate alla relazione fisica ci sta facendo abituare alla guerra e questa abitudine ci fa rassegnare fino al punto di non avere più un giudizio critico su quello che succede. Come cristiani non possiamo non guardare la storia e non giudicarla con il Vangelo che riconosce a tutte le creature – come diceva Papa Francesco – l’essere fratelli, fratelli tutti. Allora, capite bene che le guerre di oggi sono guerre mediatiche, costruite dalle intelligence, sfruttando il potere della propaganda comunicativa, affidata purtroppo ai nuovi campi di battaglia che sono le piattaforme, i social network, tutto quello che sancisce lo spazio comunicativo che è abitato in maniera ingenua da tutti noi. E purtroppo è quello che fa il pensiero.
Sapete come funziona un social network o quantomeno come funziona il meccanismo che sostiene l’audience? Dietro un social network c’è la legge della polarizzazione. Per incrementare audience, e quindi follower e riconoscimenti, c’è bisogno di creare relazioni e pratiche di schieramento. Qualsiasi cosa dovessimo pubblicare, immediatamente apparirà chi non acconsente e ciò farà aumentare le visualizzazioni. Non è forse quello che stiamo vivendo oggi? Mi è piaciuto quello che poc’anzi è stato detto: «Ci stanno schierando da una parte e dall’altra, facendoci perdere di vista che non è possibile, in questo contesto di genocidio piuttosto che di oppressione, rivendicare una ragione». Il Signore ci ha schierati dalla parte dell’uomo: «La gloria di Dio è l’uomo vivente», diceva Sant’Ireneo. E se la gloria di Dio è l’uomo vivente, possiamo forse schierarci dalla parte di chi, con le armi, con la comunicazione e con le parole, distrugge la vita dell’uomo? Non è possibile… Eppure, nelle nostre manifestazioni, vediamo schieramenti che sono il fallimento di ogni corteo di pace, di ogni azione pacifista e di ogni possibilità di pace. Ogni polarizzazione è una divisione e crea lo stato di guerra, l’uno contro l’altro. In questo siamo fortemente ingannati da un’azione veramente demoniaca, quella di calcolare tutto a tavolino. Chi è esperto di comunicazione e ha potuto leggere tutto quello che è stata l’informazione degli ultimi due mesi non può non aver capito che abbiamo assistito ad una grande “sceneggiata”. Siamo stati spettatori di proclami di adunanze per spaventare e piegare le volontà di chi ha accettato processi: una comunicazione a tavolino, studiata. In questi giorni anche in Italia si è diffuso l’appello al richiamo alle armi, al fatto che la guerra – così dichiarava un post – non riguarda solo i militari ma tutti gli italiani. Proclami che, evidentemente, hanno lo scopo di manipolare, generando ansia e paura. È solo l’esordio di quello che succederà nei prossimi giorni… E noi che facciamo? Continuiamo a chiederci chi ha ragione? Nessuno ha ragione! Ce lo insegna Auschwitz: quando si oltrepassa quel cancello, quando i giovani vanno in pellegrinaggio in quei luoghi, ci si pone sempre la solita domanda: «Dov’è finito Dio? Perché tutto questo?». E il saggio professore, che tenta di rispondere sulla presenza o l’assenza di Dio, sulla verità oppure no di Dio, replica con un’altra domanda: «Non dov’è finito Dio, ma dov’è finito l’uomo? Dove siamo finiti noi? Quando i bambini invocano una guerra per morire subito, piuttosto che un tempo di prolungamento di attesa della morte, sperimentando la sete e la fame, dov’è finito l’uomo? Dov’è finita la nostra capacità di commuoverci?». Ecco il peccato di cui accusò Papa Francesco all’inizio del suo pontificato in un Messaggio di Quaresima: il grande peccato di questo tempo è l’indifferenza. Se vogliamo promuovere guerre perché le cifre delle nostre finanze possano guadagnare sempre più profitto, dobbiamo creare uno stato di indifferenza. E l’indifferenza nasce dall’abitudine: ci siamo abituati alla guerra, ci siamo abituati alle guerre, ci siamo abituati o addormentati di fronte all’uomo che viene scacciato, di fronte all’uomo che viene schiacciato, di fronte all’uomo a cui viene negato il diritto di vivere. Le guerre di oggi, dunque, sono guerre mediatiche e le combattiamo anche noi, per questo Papa Leone ci dice di disarmare le nostre parole, di adottare un alfabeto di pace. Ma come possiamo noi, persone non riconciliate con le nostre esistenze, operare ponti o relazioni di pace?
Ci sono vari livelli di quello che è il percorso che l’umanità dovrebbe compiere. Innanzitutto, il dialogo con sé stessi, recuperando le domande di senso, stando sulle domande di senso, per comprendere qual è il senso del nostro esistere. Noi cristiani, ma anche uomini e donne di altre fedi religiose, adottiamo quella che è la risposta che ci danno le Sacre Scritture: «Tu esisti per essere felice». Questo diventa il criterio sia per verificare dove siamo noi, sia per comprendere che cosa manca al mondo. Dal dialogo di riconciliazione con sé stessi arriviamo al dialogo di riconciliazione con la morte; tutto quello che facciamo è per sfuggire e per esorcizzare la morte, che è un limite alla nostra esistenza, ma anche la grande paura che muove elementi di sopravvivenza. Noi “vivacchiamo”, non viviamo. San Pier Giorgio Frassati affermava che «vivere senza fede, senza un ideale da difendere, non è vivere ma far finta di vivere». Abbiamo ancora ideali da difendere o ci schieriamo perché mossi da ideologie che continuano a metterci l’uno contro l’altro? Ci dobbiamo riconciliare con la morte, che è la grande e unica maestra che dà senso alla vita, perché relativizza tutto, relativizza il tempo e il desiderio di potere, relativizza la tentazione dell’onnipotenza e la qualità della nostra vita: perché sprecare e rimandare? Ma c’è anche una riconciliazione sociale da fare. Dopo il Covid stiamo vivendo la crisi più grande degli ultimi tempi, il ritiro sociale: le urbanistiche, le architetture, i modi di socializzare ci vedono sempre più ritirati nel “mio”, nel “nostro”. Si scappa dai centri abitati perché l’altro fa paura, terrorizza. Questa propaganda mediatica per evadere e costruire fuori, circondati da siepi, perché l’altro non invada il mio privato, fa venir meno la prossimità. E se viene meno la prossimità ci saranno sempre più emarginazioni, sempre più “ultimi”, sempre più persone che muoiono nella solitudine. Ci dobbiamo riconciliare con la natura sociale dell’uomo, del nostro essere persone: «Non è bene che l’uomo rimanga solo» (Gn 2,18).
Ci dobbiamo riconciliare anche con la politica. Negli ultimi anni è venuto meno l’associazionismo che mediava tra l’opera e l’impegno politico e i bisogni del popolo e, quando manca l’associazionismo, il divario tra chi ha il potere di compiere delle scelte e chi grida il bisogno di una sussidiarietà che diventa solidarietà è troppo grande: siamo diventati troppo lontani. La politica è diventata non più un’azione per il bene comune, che necessita dell’impegno di tutti, ma sempre più un movimento che si basa sul consenso, e il consenso è sempre seduttivo, così come l’opera mediatica dei social che non è più comunicazione ma rappresentazione seduttiva del sé per fare numero.
E infine, forse, ci dobbiamo riconciliare con l’uomo, con le donne, con l’umano ferito, in maniera particolare, dal silenzio. Mi viene sempre in mente l’espressione di una mia insegnante: «Ragazzi, quando qualcuno vi dice “fa’ silenzio” o “stai zitto”, non ascoltatelo, perché quando ti dicono di fare silenzio o di stare zitto ti hanno diminuito, ti hanno detto che ti devi vergognare di quello che sei, ti hanno detto che, se non ti misuri con le aspettative e i metri di giudizio che alcuni decidono, non vali». Questo è alla base delle guerre: “state zitti” uomini e donne del Congo, uomini e donne della Terra Santa, uomini e donne della Russia e dell’Ucraina, uomini e donne delle periferie di Taranto, Napoli, ecc. “State zitti” giovani a cui è stato rubato il futuro, perché non siete stati educati ad essere protagonisti, ma merce di scambio. Questo è il dialogo della pace che, come afferma Papa Leone, necessita che impariamo a fare delle nostre esperienze “case di pace”, custodendo il perdono.





