Omelia nel Centenario del Servo di Dio don Oreste Benzi

Arena Francesca da Rimini, Rimini (RN), 6 settembre 2025

Sap 9,13-18
Sal 89
Fm 1,9-10.12-17
Lc 14,25-33

(da registrazione)

Ringrazio mons. Nicolò Anselmi, Vescovo di Rimini, e la Comunità dell’Associazione Papa Giovanni XXIII per l’opportunità che mi hanno dato di condividere con loro i cento anni della nascita di don Oreste Benzi: è una grande responsabilità non solo poter presiedere l’Eucaristia, ma anche tentare di tradurre il messaggio che la liturgia di oggi ci offre, misurandoci non con la grandezza di un uomo qualunque, ma con un uomo che, proprio perché “qualunque”, ci ha offerto la grandezza, la bellezza e l’altezza della vocazione cristiana: credere nell’amore di Dio.

Cento anni della nascita di don Oreste è una memoria che a noi serve per ringraziare il Signore che ci ha donato un profeta discepolo di Cristo, che ha saputo con la sua vita, nell’ascolto, corrispondere al grido dei poveri che si eleva da sempre, ancora oggi, a Dio, quel grido che sale dalle fragilità, dalle violenze, dalla morte nei campi di guerra. Ancora oggi ci sono l’uomo e la donna che gridano a Dio e Dio che, ascoltando, invia profeti, non per salvare in maniera personale chissà cosa, ma per esserci da testimoni e da discepoli.

Don Oreste si è fatto ministro e diacono dell’amore di Dio, quell’amore amato – “mio Dio, mio Tutto” –, quell’amore che era ferito e continua ad essere ferito nei poveri, nel mondo sfigurato, negli ultimi, quell’amore che tutto rinnova – lo Spirito che ci dà la forza, perché è solo lui che ci sospinge verso gli altri –, quell’amore che interpella oggi, questa sera, il nostro desiderio di gioia. La gioia a cui tendiamo può essere realizzata soltanto se, come don Oreste, ci offriamo totalmente a Dio e ai fratelli. Ed è questo Amore che ha voluto il dono totale di don Oreste, che non ha accantonato nulla, non ha messo da parte nulla. Don Oreste non ha fatto della sua vita una riserva di sicurezza, ma si è affidato ad una libertà di adesione a Cristo che lo ha consegnato, e attraverso di lui consegna anche noi oggi, al Comandamento dell’Amore, l’unico che può salvare: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Mc 12,31). Ecco chi è stato don Oreste per me, ma credo per tutti noi, per la storia, per la Chiesa, per l’umanità. Il discepolo è il servo dell’Amore grande, la cui profezia siamo noi: noi siamo la profezia di don Oreste, di chi ha creduto all’amore, altrimenti non saremmo qua. Solo chi crede all’Amore genera una comunità di amati capaci di amare, genera la speranza, quella che fino ad oggi contempliamo quando – nessuno escluso – non solo ci sentiamo amati, ma possiamo amare e compiere grandi cose amando.

Nella Prima Lettura lo abbiamo ascoltato, «chi può immaginare che cosa vuole il Signore?» (Sap 9,13). Guardiamoci intorno, guardiamoci negli occhi: don Oreste avrebbe immaginato tutto questo? Che cosa immagina il Signore? Questo: una comunità di persone che amano la vita e la servono. «Gli uomini – dice il libro che abbiamo ascoltato – furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza» (Sap 9,18) che ancora oggi continua ad illuminarci con la luce sfolgorante dei testimoni dell’amore di Dio. Ecco qual è la volontà di Dio: amare senza misura. Ed è solo l’amore che ci può salvare.

Due domande giungono a noi dalle letture che abbiamo ascoltato. La prima: perché seguire Gesù Cristo esige una rinuncia? Perché essere discepoli di Gesù significa prendere le distanze da quegli accantonamenti di sicurezza che tante volte, in maniera involontaria, compiamo. Sappiamo che la rinuncia non è un voler mettere da parte, non è un voler trascurare la propria vita. La rinuncia è la condizione per essere discepoli.

E poi la seconda: in che modo si parla, nella Seconda Lettura, di amicizia? In che modo l’amicizia può garantire la libertà e la continuità di un sogno? Dice Gesù: «Io non vi ho chiamati servi, ma amici, perché andiate e portiate frutto» (Gv 15,15-16). Dunque, Paolo, consegnando il suo amico all’interlocutore della Lettera a Filemone: «Se tu, dunque, mi consideri un amico, accoglilo come me stesso» (cf. Fm 1,17). Gesù ci ha consegnato i poveri perché erano suoi amici, ci consegna gli uni agli altri perché siamo suoi amici e don Oreste ci consegna i suoi amici: gli ultimi.

Queste due domande ci permettono di accogliere, in questa liturgia, il proposito e la scelta che alcuni di voi, nostri fratelli e sorelle, sospinti dallo Spirito, si impegneranno a vivere nella Comunità della Papa Giovanni: il proprio a Cristo, condividendo appieno la vita di ogni ultimo. “Ultimo”, uno dei termini più belli, il cui etimo ci permette di comprendere perché gli ultimi e la scelta di stare con gli ultimi ci salveranno. “Ultimo” deriva dal latino ultimus, che significa “estremo”, ma anche da ulter, che significa “oltre, al di là”. Questa interpretazione azzardata dell’etimo di “ultimo” ci restituisce l’intuizione di don Oreste rispetto al fatto che la salvezza cristiana non la produciamo noi, ma ci raggiunge dagli ultimi, perché ci chiede di andare oltre le catene e i confini rassicuranti e ipocriti di una società strutturata, che si àncora a qualifiche che continuano a classificare, ad etichettare, ad escludere, ad emarginare, ad identificare il peccato con il peccatore, la colpa con il colpevole, senza sapere che lo stare come “ultimo”, oltre questi confini, ci restituisce alla nostra umanità, capace di compassione perché ci fa ancora sentire il battito del cuore dell’altro. Se non sentiamo il battito del cuore dei fratelli siamo lontani da loro. Abbiamo bisogno di sentire il battito dei nostri fratelli!

In che modo gli ultimi ci salvano? È questa la rivoluzione di don Oreste, un esodo, un uscire fuori da ciò che confina, un uscire fuori da tutto ciò che è comodo. Don Oreste ci scomoda… Non aveva una vita comoda, non rimaneva seduto, non viveva una vita che uniforma, che riduce tremendamente, che accorcia gli slanci della gioia agli egoismi della vita, una gioia che ci tronca ogni qual volta ci affidiamo ai perbenismi luccicanti dell’apparenza, e la cultura di oggi è una cultura dell’apparire, non una cultura dell’esserci. Don Oreste ci ha allenati a guardare oltre le apparenze, ad andare in profondità, ad essere autentici, ci ha insegnato a cercare gli occhi brillanti e spesso lacrimanti di ogni fratello diseredato, con uno sguardo capace di accoglierci per farci accogliere, uno sguardo capace di realizzare la speranza dell’amore che interpella la nostra capacità di condividere. Senza condivisione non c’è Cristo, non c’è il Vangelo, non c’è la Chiesa, non c’è la gioia, non c’è la salvezza, non ci sarà speranza. La condivisione è la condizione e il criterio del Comandamento dell’Amore e la verifica del nostro discepolato, del nostro cammino, che considera seriamente e senza riserve l’invito di Cristo a seguirlo, non rinunciando ma lasciando ciò che ci trattiene nelle nostre comodità. Don Oreste ha avuto questo coraggio, un agire di cuore, ma anche l’umiltà di lasciarsi trasformare dallo Spirito, dagli incontri, dagli altri, per vivere una condizione, per questo motivo: perché i suoi amici, gli amici di Gesù, sarebbero diventati la compagnia che avrebbe continuato, nella storia, l’opera che è iniziata con la sua intuizione. Sperimentare il brivido del tutto e non del part-time. Nelle nostre comunità parrocchiali forse viviamo una fede part-time, in alcuni momenti, quando ci conviene, quando non siamo disturbati, tanto che l’impegno per l’evangelizzazione lo chiamiamo volontariato e non testimonianza. L’amore di Dio è stato totale e i suoi discepoli parteciperanno a questo amore corrisposto in maniera totale. Don Oreste, dunque, fu un maestro della sequela, un testimone dell’amore, un uomo che ha voluto vivere l’ebbrezza dell’umanità, un uomo che ha vissuto la rinuncia ai propri averi come capacità di non lasciarsi intrattenere, perché nessun residuo di egoismo depositato nei nostri cuori possa vincolarlo, perché la sequela è un cammino che ci fa avanzare, è dinamico, è il coraggio di camminare, è la spinta che lo Spirito dà alle nostre esistenze per andare verso l’Eterno, verso l’altro, verso l’Alto. Ed è questo che ci espone, che ci tira fuori dalle comodità, è questo che rinvigorisce i nostri rallentamenti e ci dà fiducia. Tante volte diciamo che la dimensione pasquale della fede è un esodo, ma da che cosa? È un uscire dal proprio io, io, io. L’io è l’Egitto, l’io che ci intrattiene nel “mio” per andare verso quei volti che, il più delle volte, invocano e guidano a Dio: «Abbi pietà di me, aiutami». Invece siamo abituati a mostrare volti tristi, lamentosi, a mostrare il volto di una comunità che continua a difendersi. Il Vangelo, invece, ci espone al mondo, un mondo da amare. Non ci chiede di difendere qualcosa… Il Vangelo, così come ci ha insegnato don Oreste, ci fortifica nella capacità di non aver paura del mondo. Non dobbiamo difenderci dal mondo, ma il mondo ha bisogno di noi poveri per andare incontro a chi distrugge, sfrutta, violenta, urla arrabbiato, per andare incontro a chi, prendendo le armi, ammazza, perché non abbiamo più nulla da perdere. La profezia cristiana è possibile quando avremo disarmato le nostre ragioni egoistiche, le nostre comunità e le nostre vite da interessi da difendere: sono questi la causa di ogni guerra che produce solo morte. Non ci sarà pace se non abbiamo il coraggio di disarmare le nostre convinzioni egoistiche, il nostro io, i nostri timori. Ecco allora che l’amicizia, ciò che don Oreste ci ha proposto, diventa la garanzia di un prosieguo, è la linfa della lungimiranza, è la forza garante di una mentalità salvifica. Solo espressioni di un’amicizia autentica potranno far sì che il Vangelo si diffonda fino alla fine dei tempi. Il Vangelo non ci chiede di essere perfetti, ma di essere autentici nel testimoniare la bellezza dell’amore di Dio. Il Vangelo ci sollecita ad andare contro i confinamenti delle regole per fare dell’umano la regola che ordina la gioia, la pienezza, la perfezione all’impegno, al compito del riscatto della speranza. L’orrore del male ci pone di fronte a cosa manca al mondo, alla nostra vita, soprattutto quando assistiamo, sempre di più, al pianto della morte. In quel momento, oggi, ci manca l’umanità, la consapevolezza, che aveva don Oreste, di essere semplicemente uomo grato al Signore per il suo amore. Un amore che va praticato, che ci spoglia da ogni vincolo, che ci disereda e ci rende dei diseredati, che ci umilia nel senso che ci rende umili, che ci fa terra per essere consapevoli che siamo creature e che nostra eredità non è quello che mettiamo da parte ma il Signore. Don Oreste era un contemplativo ed è ciò che manca al mondo di oggi: saper contemplare l’amore. Lui si è fatto esperto di amicizia per guarire ogni suo fratellino e ogni sua sorellina con la grazia del Vangelo proclamato e predicato, non con le parole, ma con il suo vissuto. Se non abbiamo il coraggio di vivere il Vangelo non guariranno le miopie e le distorsioni dell’egoismo, che ci impediscono di andare oltre gli sbarramenti della mia proprietà. Don Oreste ci ha insegnato che, per seguire Gesù e giungere con gli amici lontano, anche oltre i confini del tempo, fino all’eternità, bisogna espropriarsi, uscire dal proprio per esporsi alla gioia dell’incontro con Dio tramite i fratelli a cui ha dato tutto di sé: questo garantisce la gioia vera. Se non facciamo altrettanto non ci potrà essere gioia, perché, come ha detto Gesù, la gioia più grande è fare della tua vita un dono di gioia. Non c’è gioia più grande che dare la propria vita per gli altri. Don Oreste l’ha fatto. Oggi ci ha convocato per dirci: «Non abbiate paura di fare altrettanto».