Sir 50, 1.3-7
Sal 15
Gal 6,14-18
Mt 11,25-30
(da registrazione)
È bello potervi accogliere in questa chiesa collegiata; saluto le monache, le suore, il sindaco, le autorità civili e militari, i sacerdoti, il parroco, ma soprattutto tutti voi amici di suor Rita che siete qua per assistere alle meraviglie che il Signore sta compiendo davanti ai nostri occhi, di cui spesso non ci rendiamo conto: il Signore non fa cose “pazzesche”, ma cose “grandi” attraverso la vita di ognuno di noi, e oggi, attraverso l’eccomi di suor Rita, dice a noi: «Coraggio non temete, c’è sempre speranza, purché si squarci il velo del tempio per passare dalla disperazione all’incontro che è la promessa di Dio, che ci fa dire con Francesco: «Onnipotente, eterno, giusto e misericordioso Dio, concedi a noi miseri di fare, per tuo amore, ciò che sappiamo che vuoi e di volere ciò che a te piace» (Fonti Francescane 233).
All’inizio di ogni cammino di fede, all’inizio della consapevolezza di noi cristiani di fronte a Cristo Gesù, come Francesco, come Chiara, come le nostre monache e oggi suor Rita, chiediamo: «Signore, che cosa vuoi da me? Che cosa cerchi per me? Qual è il tuo volere? Cosa vuoi che io faccia per piacerti?». Il Signore non esige che ci misuriamo con schemi o regole particolari, al Signore piacciamo così come siamo: «Tu sei mio figlio, il mio diletto, in te mi sono compiaciuto» (cf. Lc 3,21). Ciò che piace al Signore siamo noi, perché sue creature. E ci vuole felici. Ciò che piace al Signore è che ognuno di noi sia pieno di vita, viva la gioia e la viva in maniera piena. È per questo che la liturgia di oggi ci fa celebrare il santo che tutti ricordiamo come l’autore degli inni più belli della perfetta letizia. Il ricordo del nostro Padre Serafico Francesco ci permette di accogliere una donna, la quale, affascinata dal Vangelo di Cristo, ha deciso di farsi accogliere nella fraternità delle nostre monache Sorelle Povere di Santa Chiara per vivere il Vangelo, che chiede a suor Rita e, attraverso di lei, ad ognuno di noi che accogliamo il mistero della misericordia di Dio, di aderire per sempre a Cristo Signore. Come possiamo aderire per sempre a lui? Accogliendo la via del Vangelo sull’esempio di san Francesco e di santa Chiara, che sono stati segni profetici, ed è questo che viene chiesto a te, suor Rita, e a tutta la comunità delle suore per una vita futura di beatitudine per il Regno dei Cieli. Come possiamo essere segni profetici di un futuro benedetto da Dio, che è la nostra gioia, se non facendo quello che ha fatto il poverello di Assisi, rinunciando all’eredità terrena?
È qui che inizia il cammino di fede. Non ci viene chiesto di rinunciare ai beni, alla gioia, a questo bel mondo che Dio ci chiede di abitare, ma di rinunciare all’eredità terrena per accogliere l’eredità eterna che è il nostro Signore, «mio Dio, mio Tutto». Il Signore Gesù – lo abbiamo ascoltato nel Vangelo di oggi –, nella sua preghiera di lode al Padre celeste, proprio prima di offrirsi al sacrificio della croce, – e la croce sappiamo che è stata un segno che si è conficcato in tutte le parole e i pensieri di disperazione aprendo il regno della speranza all’umanità – inquadrando e guardando alla sua croce ha detto: «Venite a me… che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (cf. Mt 11,28-29). Gesù ci chiama ad andare a Lui. Gesù ci chiama a stare con Lui. Gesù ci chiama a contemplarlo. Gesù ci invita a seguirlo. È questa la conversione: lasciarsi rapire dal volto di Cristo che, fissando i suoi occhi nei nostri, intercettando tutti i nostri desideri di gioia, non ci dice «risolvo i tuoi problemi», ma «vieni e seguimi» (Mc 10,21). Allora proviamo a comprendere quello che sta accadendo, perché la vita di suor Rita, il suo eccomi, oggi è segno per noi di una possibilità di mettere in discussione le nostre collocazioni, nelle provvisorietà che ci trattengono per un’eredità terrena e non ci liberano per un cammino verso l’eterno.
All’inizio della storia di suor Rita c’è la storia di Francesco, che oggi celebriamo. Vogliamo recuperarci a queste parole che tu dirai: «Il desiderio di lasciare tutto per seguire Gesù», per dire con san Paolo «perché il mondo sia crocifisso in me e io sia crocifisso per il mondo» (cf. Gal 6,14). All’inizio della storia di ogni battezzato c’è la verità e la verità è l’Uomo Cristo Gesù che non ci chiama dopo la risurrezione, ma già dalla croce. Ogni vocazione al discepolato è una chiamata che ci giunge dal momento della crocifissione, momento in cui uno dei due malfattori a fianco a Gesù dice: «Signore, mi salverò?». «Oggi stesso sarai con me in paradiso» (Lc 23,43)… perché «tutto è compiuto» (Gv 19,30). Francesco era nella chiesetta di San Damiano, tra le macerie di una chiesetta ormai distrutta che è simbolo della nostra vita; è là che si erge quel crocifisso che lui ascolta e che gli dice: «Francesco, va’, ripara la mia casa» (Fonti Francescane, FF593). «Rita, va’, ripara la mia casa». Noi tutti, guardando quel crocifisso, siamo stati invitati ad andare a riparare la casa di Cristo, il tempio dello Spirito Santo, la Chiesa, comunità di battezzati, popolo di Dio, ma soprattutto le nostre vite che, accogliendo la grazia del Battesimo, oggi si chiedono: «Che cosa ne stiamo facendo del dono della fede? Che cos’è la fede? A cosa ci porta il dono della fede?». Alla speranza della vita eterna: «Tutto è compiuto». Sono parole che sigillano il riscatto di ogni battezzato, di ogni creatura che si consegna alla speranza delle realtà future. Chiunque riesce a perseverare nel santo dono della promessa della vita eterna potrà lasciare tutto e seguire il Dio della vita, lo Sposo, il Signore, il Re dell’Universo. Per san Francesco quest’ascolto è diventato un inizio da cui partire per fare i conti con la propria vita, con tutto ciò che abitava il profondo del suo cuore. Tutto quello che da quel momento in poi Francesco ha fatto è stato un cammino di conversione: il fallimento di una ricostruzione per un richiamo a fare altro non era altro che lavorare su quell’umano che è il luogo dove Dio ricostruisce la speranza. È stato un cammino di spoliazione dalle catene e dagli ambiti della morte. Lui non si è spogliato dei vestiti, ma dei vestiti della morte, perché tutto ciò che è materiale ci ricorda che appartiene a questa terra e noi non possiamo vivere per le cose terrene, che ci trattengono e ci seppelliscono in logiche che non ci danno la libertà di aprirci al dono dell’inizio: «Nudo uscii dal grembo di mia madre e nudo vi ritornerò» (Gb 1,21). Il cammino di conversione che suggella in te, quest’oggi, il tuo voler perseverare nel dono delle promesse di Cristo è il ritorno a quella nudità in cui Dio Padre ci ha creati. Finché continueremo a coprirci di giudizi, di ideologie, di scusanti, evaderemo sempre la prospettiva della gioia e ci accontenteremo di conquiste effimere e provvisorie. Il cammino di spoliazione, dunque, è una chiamata che ci arriva dal Crocifisso e, prima di morire, quel Crocifisso annuncerà quello che succederà dopo e quello che succederà a te, suor Rita, tra poco: un velo del tempio si squarcerà. Finalmente tra te e il tuo Signore non ci sarà più un velo di separazione, ma un’unione profonda. Durante le professioni mi piace ricordare che il velo che le monache indossano come segno è un pezzo di quel velo squarciato che ci ricorda a chi apparteniamo e da chi dobbiamo scappare, perché fra noi e Dio non ci dev’essere alcun velo. Questo elemento di separazione tra l’umano e il divino, tra noi e il santo, tra la mia vita trattenuta e la libertà di avanzare, sta per squarciarsi, cara suor Rita, e aprirà per te “il passaggio”, sarà la tua Pasqua che niente e nessuno potrà più occludere. Gesù ti chiama dalla croce e ti custodisce nell’offerta di quel perdono: «Oggi stesso sarai con me in paradiso». Davanti al Crocifisso, oggi, in questa celebrazione, tu – come dirai tra poco – sarai mossa da divina ispirazione: è Dio che ti chiama, è Gesù che ti chiama, è la storia che ti interpella, è il desiderio di felicità che porterà a compimento in te la totale consacrazione a servizio del Regno. La consacrazione è la piena e completa unione con Dio, che è già avvenuta per noi il giorno del Battesimo. In quel giorno tutti siamo stati uniti completamente a Dio e alle sue promesse di vita. Ma come possiamo mantenere viva questa consacrazione, questa unione? Mediante la carità che ti permette di gridare come Francesco, quando, affamato di amore, bisognoso di comprendere perché il Signore lo amasse, gridava: «Mio Signore, mio Tutto». Come vorrei che anche noi provassimo quell’affanno, come vorrei che anche noi, proprio quando veniamo immersi in acque profonde e non respiriamo, desiderassimo quell’anelito di vita che fa gridare «mio Dio, mio Tutto!». Tutto il resto è spazzatura (cf. Fil 3,8). Il desiderio, ispirato dal mistero di Cristo e dal suo amore per tutta l’umanità, ti permetterà di essere una creatura nuova: le cose vecchie sono passate (cf. 2Cor 5,17). La creatura nuova si plasma e si conforma a ciò che di nuovo il Signore compie nella vita di tutti, e oggi per te, suor Rita, perché ogni giorno il Signore ci rinnova nel dono della sua Parola. È là che rinasciamo creature nuove. Ed esige, questo rimanere nel desiderio di essere creatura nuova, proprio quello che dice san Paolo: «Il Vangelo diventi la nostra croce, dove la nostra adesione crocifigge il mondo, ma anche noi diventiamo pietra d’inciampo per il mondo». Tanti giovani si chiedono che senso abbia diventare monaca, suora, prete, diacono, papà, mamma… Non sarebbe forse una catena assurda, una vita sprecata? Chiediamoci che cosa significa “vita sprecata” o “vita donata”. Quando ci esponiamo, cari giovani, all’illusione di trovare risposte in gioie effimere, quella è “vita sprecata” che consuma la nostra vita. La vera vita è quella che viene donata in pienezza, ce l’ha detto Gesù: «Non c’è gioia più grande che dare la propria vita» (cf. Gv 15,13) per non consumarla. È un cammino di espropriazione che esige la purezza del cuore, la condizione della semplicità, perché così si rompe ogni legame con la morte. Tutto ciò che è effimero, mortale, ci incatena, ci intrattiene. Alle volte anche le nostre relazioni sono mortali, diventano schiavitù, appartenenze che non alimentano la felicità perché non sono libere e liberanti e ci intrattengono nella morte, nella condizione di rassegnati alla paura, alla tristezza, ad una vita che si accontenta di bere il veleno della menzogna e dell’angoscia. Allora cosa ci dice Gesù? Dalla croce, attraverso Francesco e attraverso te, Rita, Gesù ci dice: «Non abbiate paura, non temete». Ci vuole coraggio a lasciare tutto. Bisogna agire con il cuore: il cuore diventa quella clausura all’interno della quale scegliamo di custodire e sigillare il desiderio di essere totalmente uniti a Cristo.
Cara suor Rita, oggi si manifesta il segno della tua appartenenza totale allo Sposo e alle sue promesse, nella nuova condizione – come professerai – di pellegrina e forestiera in questo mondo, perché la strada nella quale bisogna perseverare e avanzare verso Dio è il pellegrinaggio. Espropriati, dunque, per anelare a non avere nulla di tuo, nulla di proprio. La povertà non è non possedere, è espropriarsi, condividere, elaborare la parabola della fraternità che porta gioia per consegnarti, nella storia, alle tue sorelle che custodiranno il tuo “sì”, e al mondo nella testimonianza di questa libertà interiore che deve interpellare le nostre non coraggiose scelte di vita, ma soprattutto per impedire che il mondo continui a cadere nel nulla. Mi piace l’immagine della Prima Lettura: quel re che scava per contenere tanta acqua, recinta per proteggere il proprio popolo, ci fa comprendere che, soltanto rimanendo nella profondità del cuore, possiamo custodire la chiamata del Crocifisso che generosamente ha dato la vita per noi. E questo eccomi si rinnovi perché alla fine tu possa sentire la voce dello Sposo che ti dice: «Benedetta dal Padre tuo, benedetta dal Padre nostro, perché il tuo futuro, il nostro futuro, sia una benedizione nella misura in cui abiteremo nella luce della benedizione».
Cara suor Rita, carissime sorelle, oggi sentiamo che il mondo ha bisogno di un segno profetico. Un segno profetico è ciò che rimanda, non ciò che trattiene, è ciò che apre nuove strade, non ciò che percorre il “si è sempre fatto così”; un segno profetico ci espone e non ci fa battere in ritirata dalle provocazioni mediante cui questa storia, in un tempo in cui la pace è minacciata, chiede proprio a noi cristiani di aprire nuove strade. Il mondo ha bisogno, attraverso il tuo eccomi, di aprirsi alle cose di lassù per poterci elevare tutti insieme dalla condizione di mortali. Il tuo per sempre sia il sigillo che poni, per sempre, a tutti i limiti che la morte può metterci davanti e ad ogni paura che si potrebbe definire come trattenimento. Che ogni coraggioso sì possa dire con te e con tutti noi: «Sia lodato, mio Signore, per tutto quello che fai». Mi scuserete se mi sono allungato un po’, ma non potevamo non sprecare questo tempo per dire che il sì e la professione del per sempre di suor Rita provocano le nostre incapacità ad impegnarci per sempre con Dio e con gli altri, quando pensiamo che tutto sia provvisorio e invece non lo è. Oggi il mondo ha bisogno di gente che sceglie il per sempre.





