Diritto internazionale mattone per costruire la pace

Intervista a Edoardo Rossi, giurista esperto di diritto internazionale

Praticamente ogni giorno, nell’attuale momento storico, si sente parlare di diritto internazionale che regola, o dovrebbe tentare di regolare, i rapporti tra Stati. Non è, tuttavia, solo un insieme di norme. È un progetto collettivo, una costruzione umana basata su cooperazione, rispetto e dialogo. Pur con i suoi limiti, resta lo strumento essenziale per affrontare le sfide globali. Ma la sua efficacia dipende in larga misura da noi: dalla volontà degli Stati, dalla consapevolezza delle persone, dall’educazione delle nuove generazioni. Ne abbiamo parlato con il professor Edoardo Rossi, Associato di Diritto internazionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Urbino.

Professor Rossi, quale ruolo ha avuto il diritto internazionale, dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi, nella costruzione di un ordine mondiale fondato sulla pace e sulla cooperazione tra Stati?

Per rispondere è utile una breve premessa sui caratteri teorici essenziali del diritto internazionale. La struttura della Comunità internazionale, della Comunità degli Stati quindi, è caratterizzata da due tratti distintivi: la paritarietà e l’anorganicità. Il primo implica che tutti i soggetti del diritto internazionale – gli Stati – siano formalmente sullo stesso piano, indipendentemente da qualsiasi fattore, compresa la loro dimensione, potenza economica o popolazione. Ogni Stato è sovrano e non riconosce nessuna autorità superiore. La seconda caratteristica, l’anorganicità, riguarda l’assenza di organi centrali – legislativi, giurisdizionali o con poteri di attuazione coercitiva del diritto – nella Comunità internazionale. Non esiste, in altre parole, un parlamento mondiale, un giudice internazionale naturale costituito dal diritto o una “polizia” internazionale. Gli organi che agiscono a livello internazionale, come quelli delle Nazioni Unite o dell’Unione europea, traggono la propria legittimazione dal consenso e dalla volontà degli Stati. Ed è proprio qui che si può individuare uno dei più grandi meriti del diritto internazionale: la capacità, attraverso trattati internazionali, di creare organizzazioni internazionali a cui gli Stati stessi decidono spontaneamente di trasferire parte delle proprie competenze sovrane, per perseguire obiettivi comuni che non sono in grado di raggiungere individualmente, come il mantenimento della pace, lo sviluppo sociale ed economico, la tutela internazionale dei diritti umani e, più in generale, la cooperazione internazionale. Basti pensare al ruolo dell’Unione Europea, che ha contribuito in modo decisivo a garantire decenni di pace e benessere economico nel continente europeo.

Oggi assistiamo a un crescente “disprezzo” per le regole del diritto internazionale, specialmente in contesti di guerra e occupazione: possiamo parlare di una crisi del diritto internazionale?

Parlare di “disprezzo” forse è eccessivo, ma sicuramente si rileva un certo scetticismo verso l’utilità del diritto internazionale e una volontà, in alcuni casi, di superarne i meccanismi tradizionali. Tuttavia, non so quanto possa essere corretto parlare di crisi del diritto internazionale. Questo sistema ha sempre dovuto fronteggiare situazioni di conflitto, occupazioni territoriali e violazioni generalizzate dei diritti umani. La sua storia affonda le radici in epoche antiche: basti pensare alle regole sui rapporti diplomatici già presenti a partire dalla Grecia antica. Il diritto internazionale ha mostrato una capacità di resilienza notevole nel tempo. Oggi, sebbene si possano leggere segnali di fallimento – come mostrano le situazioni di Ucraina e Palestina – la sua funzione resta cruciale. Ogni percorso di risoluzione dei conflitti passa inevitabilmente dal diritto internazionale, prima o poi. Senza regole condivise e strumenti giuridici comuni, non si può sperare in soluzioni durature.

In un mondo sempre più multipolare e diviso, quali spazi restano per rafforzare la cultura del diritto e della legalità internazionale come strumenti di prevenzione dei conflitti?

Il diritto internazionale può e deve favorire rapporti amichevoli tra Stati, su più piani: sociale, culturale, politico, economico e giuridico. Gli strumenti giuridici – consuetudini internazionali, trattati bilaterali o accordi multilaterali – sono fondamentali per facilitare il dialogo e consolidare relazioni pacifiche e costruttive. La comunità internazionale si è venuta a formare proprio con questo obiettivo: creare un terreno comune per la cooperazione tra soggetti giuridicamente pari, dal più piccolo Stato al più influente. In ambito ONU, ad esempio, ogni Stato ha diritto a un voto nell’Assemblea Generale, che si tratti di San Marino o degli Stati Uniti.

Le autocrazie, il culto dell’uomo forte anche dove si credeva fosse consolidata la democrazia, il linguaggio diplomatico praticamente scomparso lasciando spazio a discorsi di odio, di discriminazione di “bullismo istituzionale”, si potrebbe dire; e ancora la legge del più forte, del più ricco e la polarizzazione delle posizioni che chiude la porta alla dialettica e al dialogo… ecco oggi sembra di vedere dilagare questo, come se ne esce?

Penso che sia fondamentale andare alle radici di questo fenomeno. Tali atteggiamenti non sono nuovi nel diritto internazionale, ma oggi colpisce il fatto che provengano frequentemente da vertici di Stati di grande peso. Credo che la vera crisi non sia tanto del diritto internazionale, quanto culturale: una crisi di valori e identità che investe intere società. Ed è proprio questa crisi che produce dichiarazioni o comportamenti pericolosi, che mettono a rischio la cooperazione internazionale. Uscirne significa ricostruire un ambiente di dialogo e rispetto reciproco, condividere obiettivi comuni, ristabilire una fiducia collettiva nei valori fondamentali che il diritto internazionale incarna.

In questo ripristino del dialogo che ruolo gioca l’educazione, la formazione soprattutto delle nuove generazioni?

Si tratta di un ruolo di grande centralità. Occorre ritagliare sempre più spazio e investire fortemente sull’educazione alla pace e alla comprensione delle dinamiche internazionali fin dalle scuole. Le giovani generazioni sono un terreno fertile per trasmettere valori positivi, e gli strumenti esistono. Parlo non solo come docente, ma anche come coordinatore Erasmus del mio Dipartimento: la mobilità internazionale studentesca, ad esempio, favorisce l’apertura verso altri punti di vista, l’incontro con culture diverse e l’adattamento verso regole differenti, che possono davvero fare la differenza.

Vedo nei ragazzi che tornano da esperienze all’estero una maggiore consapevolezza, una mentalità più aperta, un approccio più dialogante. Dobbiamo incentivare questi percorsi, anche a livello di scuole superiori. Solo così si può costruire una società capace di comprendere le dinamiche internazionali e promuovere la pace.

Alla luce degli ultimi sviluppi in Medio Oriente e del perdurare del conflitto in Ucraina, quanto hanno influito e influiscono le pressioni della società civile per la pace?

Penso che il ruolo della società civile sia stato (e sarà) fondamentale. Gli sforzi emersi nella comunità internazionale, le pressioni politiche che hanno esercitato gli Stati e le organizzazioni internazionali, in primis con le sanzioni attraverso l’esercizio di contromisure e con azioni politiche e diplomatiche da più fronti, in realtà non avrebbero la stessa incisività, se non fossero accompagnate da fattivi riscontri nella società civile. Una forte movimentazione, che deve sempre mantenersi nei canali pacifici della non violenza, ha un forte peso, poiché in democrazia, la legittimità dell’azione politica passa dal consenso popolare. La nostra Costituzione, come molte altre, afferma che la sovranità appartiene al popolo. Dunque, una società civile attenta, informata e partecipe può contribuire in modo decisivo a orientare l’azione degli Stati verso la ricerca della pace. Non è detto che ciò basti da solo a risolvere i conflitti, ma è un elemento che rafforza le possibilità di una soluzione duratura, fondata su regole comuni e sulla legalità internazionale”.

Antonio Fabbri, giornalista

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